Fino ad un certo punto.

La strada a due corsie è stretta, una striscia di confine tra chi va e chi viene. Le carreggiate sono separate da una linea bianca continua lunga chilometri, la separazione tra il buon senso e la pazienza. Facili alternative non ce ne sono. Avanti e indietro, chilometro dopo chilometro. Neve, ghiaccio, nebbia, pioggi, vento e sole accecante.

Sulla provinciale, con il mio tir che vale quanto dieci o quindici di quelle utilitarie che mi stanno sotto, impreco tutti i santi giorni. Mi metto la fede quando sono al volante e prego, anche se ogni buona intenzione dura poco, di non trovare davanti a me l’ennesimo, il solito impedimento che mi rallenta. Il traffico è un conto ma un piccolo uomo di colore che pedala come fosse nel deserto, placido e sereno che se trasportasse TNT non salterebbe in aria. Lui pedala e io impreco, lui guida il destino del mondo e io devo fare la mia consegna e mi blocca. Non è la prima volta che poi arrivo in ritardo ma io non ho alternative a quel nastro dì asfalto che maledico tutte le mattine: devo rallentare.

Fino ad un certo punto penso. Da bambino avevo visto al circo uno scimpanzé in bicicletta. Ridevo. Ora ho smesso. Ora ho la villetta, il mio camion , la famiglia e due figli, un mutuo. Ora ho smesso di ridere e conto i minuti perché è proprio in quel confronto che la dignità di un uomo si frantuma contro una ruota da  ventotto pollici e due tubi.

“Perché non vai a pedalare da un’altra parte maledetto, perché non vai in auto, sempre che la patente te la diano”. Ѐ semplice pensare che tutti i neri del mondo siano venuti qui per me a rompermi le balle con quelle bici scassate. Suono le trombe, lampeggio, mi attacco quasi alla ruota, ma quello proprio non si sposta. D’altra parte non c’è spazio su quella maledetta strada tra il fosso e la scarpata. Continuo ad santificare a modo mio mentre gli mostro una faccia dura e il dito medio, come se potesse vedermi anche di spalle.  

Fino ad un certo punto penso: la mia pazienza regge ma non è mica infinita. L’uomo in bicicletta svolta, all’improvviso cede ed io applaudo e gli suono le trombe. Il motore ruggisce, cambio marcia con il cuore più leggero e il volume del mio pezzo preferito al massimo.  Eppure quando passo per i campi di pomodori vedo uscire nugoli di biciclette come insetti, come fosse l’ora di punta della libera uscita: le vedo andare e venire, urtarsi, divincolarsi e infilarsi nelle stradine fino a sparire in direzione delle baracche. Ecco così dovrebbero essere, lontane da me, dalla mia vista. Non le guardo più come non guardo più quelle cose che disturbano la pace del mio portafoglio: guerre, fame, barche che affondano, padri che lasciano figli, donne ammazzate dai mariti, politici che urlano. Una verità per me è uguale ad una bugia se non mi tocca. Io lavoro con il mio camion, ho famiglia e devo fare le mie maledette consegne.

“Se gli do troppo poi chi paga le tasse?”, dice il mio amico della fabbrichetta sulla provinciale con gli occhi puntati al registratore di cassa come fosse un altare.” Gli do sette euro per un turno, un panino e una bottiglia d’acqua perché non siamo mica negrieri noi, perdio”. Dalle nostre parti la solidarietà non esiste, non può essere una tassa in più. Se lavori mangi altrimenti fai dieta. Mia moglie ai Caraibi, la figlia con lo smartphone nuovo e io con il mio camion non voglio l’INPS sulle spalle. La morale non posso permettermela: è cara come l’olio per il motore.

Fino ad un certo punto la pazienza regge. Tiene come il piede che non schiaccia sull’acceleratore quando ho l’ostacolo umano a pochi centimetri dal muso del mio camion. Arrivo alla piazzola, suono e mi fermo. Scarico la merce incasso e riparto. Il motore prende giri e la Provinciale si riapre. Tu

Fino ad un certo punto le cose si sopportano. Dopo quel punto la strada resta la stessa, la linea bianca pure, ma cambia chi la attraversa e chi la blocca. Il tir continua a consumare chilometri mentre la coscienza consuma parole non dette.  

La stella cometa.

Era segno nel cielo, una scia di luce  nel giorno e nella notte, annuncio di eventi eccezionali, dell’avvento di una nuova era per l’Umanità, l’avverarsi di una svolta rivoluzionaria per tutti i popoli del mondo. Era splendente nel cielo e brillava anche per tre saggi re d’Oriente che l’hanno seguita per le vie del mondo certi di una meta sorprendente, speciale e unica. A lei si affidarono con cuore puro mettendo in secondo piano l’intelletto colmo di sapienza.

Millenni sono trascorsi da allora  e oggi quasi più nessuno guarda il cielo con quegli occhi curiosi; sono rimasti in pochi a farlo: gli innamorati lo fanno con il cuore e i bambini con lo spirito di angeli che in quella vastità sanno ancora volare con le ali dell’innocenza e della fantasia.

Le tracce luminose, le scie bianche adesso sono aerei  e droni che solcano l’azzurro, missili e ordigni paurosi da temere come era nelle epoche remote in cui si pregava per far piovere, liberarsi dai fulmini o far splendere il sole siccitoso. Un nuovo olimpo ora rivive nelle vastità ultraterrene, pieno di divinità amorali, irascibili, incontentabili e sanguinarie e sembra aver annullato conquiste di progresso e civiltà di millenni, sembrano essere svanite le nubi seguite con la meraviglia dell’infanzia a creare mille e una storia.

Al posto della fantasia ci sono adesso solo bombe in picchiata, ordigni che esplodono e che straziano carni, annientano vite, spezzano ossa e saturano il dolore in cuori che nessun essere umano avrebbe mai immaginato di poter sopportare. Il cielo si è oscurato e lo sguardo si è spento.

Quale messia potrà mai salvarci ora, quale redenzione potrà redimerci dall’aver fatto finta che nulla accadesse, convinti da un maligno sortilegio che la realtà sia solamente la nostra ristretta e asfittica vita solitaria, quella senza aria e falsa dei nostri schermi senza sangue, di virtuali empatie, di vastità aride di like?

Quale risposta potremmo dare senza sprofondare a chi ci chiederà domani dove eravamo, perché abbiamo smesso di guardare il cielo con fiducia, perché abbiamo permesso a Erode di uccidere il bambino che viveva in ciascuno di noi e pure la nostra anima, perché ci siamo voltati dall”altra parte e non abbiamo più visto la neve cadere, l’acqua sommergerci, il sole prosciugarci il sangue nelle vene?

Senti ancora battere il cuore, è questa la cosa più bella, e si tornare a rivedere il cielo.

Il ratto e la zucca.

Non rispondi vero? Fai sempre così quando ti si chiede qualcosa, taci, senza mai il coraggio di prendere una posizione, assumerti una responsabilità. Io li conosco quelli come te che voglio rimanere nell’ombra e vivere sulle spalle degli altri mentre accumulano ricchezza, tramano, si muovono alle spalle per poi tradire e avere il proprio tornaconto. Non ho mai visto una zucca agire ma questa è certamente solo una mia colpa; tanti mi hanno detto di non fidarmi, di stare su chi va là, di guardarmi le spalle dalle infide zucche.

Li conosco quelli come voi che agiscono nell’ombra e fate le vittime per trarre qualunque vantaggio a spese degli altri. Bugiarda, e pure senza sapore. Sei così orgogliosa, vanitosa, superba che dovresti ringraziarmi che ti mangio per sfamarmi quando non ho di meglio per riempirmi la pancia, e invece mi guardi e con quel sorrisetto è come se mi prendessi in giro, mi sfidassi a continuare a morderti e a ingurgitare bocconi per farmi scoppiare e morire d’indigestione. Tu ci provi ma io non casco nella tua trappola, non riuscirai a vedermi morto ma sarò io che verrò al tuo funerale cara mia!

Sei inutile, squallida, triste nella tua immobilità perche se il creatore dell’universo ti avesse voluta un briciolo di bene ti avrebbe creata come me, la più bella e intelligente creatura al mondo, e invece sei solo una povera zucca, non hai nemmeno i denti, la bocca, le zampe. Pensi agli uomini come esseri intelligenti? No, no quelli sono buoni solo a far danni, capaci di estinguersi da un giorno all’altro e lo faranno presto se continuano così. Prima o poi si bombarderanno con qualche strana bomba, di quelle che hanno inventato, e noi ratti ci libereremo per sempre anche di loro. Sotto terra, nascosti noi ce la faremo benissimo, ci siamo abituati, e nel giro di poco tempo domineremo il mondo con milioni di ratti che si riprodurranno senza contrasto, senza nemici, senza veleni. Le radiazioni saranno uno scherzo e il cibo per noi non è mai stato un problema: mangiamo di tutto, perfino le zucche. Non sorridi, non apprezzi la battuta? Continua così stupidissimo vegetale, e più stupido io che ti parlo.

Finirà il tempo delle zucche come è finito quello dei dinosauri. Rimarranno i migliori, quelli di questa terra e non quelli venuti da chissà dove, arrivati tra noi per annientarci, sostituire il regno animale con quello vegetale. Un piano fallimentare, neanche tanto realistico, partorito chissà da quale mente malata e da congiurato.

Vedi, con questi discorsi mi hai fatto venire già fame. Anche per questa sera zucca per cena.

Non uccidere.

Cosa può esserci di più semplice che distinguere il bene dal male? La banale e ovvia scelta tra il bianco e il nero, tra luce e ombra in realtà ben presto si manifesta come un’illusione se per errore non si considera che nella vita reale i fili delle vicende umane si annodano quasi sempre in grovigli e nodi inestricabili tra loro. Pertanto se la premessa è stabilire chi sia più innocente tra coloro che non hanno consapevolezza del male da chi ne abbia invece coscienza e non lo compie, questo è un falso problema perché il male basta non compierlo al di là delle intenzioni. Il male è azione, è concreto, palpabile, dolore lacerante.

Bene e male coesistono in un rapporto simbiotico, si alternano e si sovrappongono, hanno significato e senso solamente se si immaginano astrattamente su opposti fronti perché non esiste l’uno senza l’altro. A cominciare dai primordi dell’Umanità, a ritroso fino a giungere all’Eden quando Dio aveva proibito all’uomo di mangiare il frutto della conoscenza. Tutto è iniziato con una disobbedienza e un morso. “Adamo perché ti nascondi” chiese Dio. “Ho vergogna perché sono nudo”, rispose Adamo. Dio mangiò subito la foglia, comprese quanto era accaduto e l’Umanità ebbe la conoscenza, ovvero la consapevolezza del bene e del male, e quindi anche la possibilità di decidere tra amare e odiare, salvarsi o essere sprofondati negli inferi. Adamo accusò Eva di averlo ingannato, Eva diede la colpa al serpente di averla sedotta, il serpente che parlò solo per raggirare Eva perse la parola per sempre e si prese tutte le colpe. Il solito scaricabarile che definì quantomeno una verità eterna, ovvero che il male si avvera sempre per colpa di qualcun’altro e mai per mano di chi lo compie. Bisogna pur assolversi, porco demonio!

Qualche tempo dopo aver perso l’accesso all’Eden arrivò Noè, il Giusto, un uomo tra tanti che fu direttamente incaricato dal Creatore del cielo e la Terra di salvare con un’enorme arca tutte le specie viventi del pianeta. Incarico che Noè svolse diligentemente anche se chissà cosa dovette pensare per l’ingrato compito. Comunque ubbidì. Piovve per giorni e notti, e il mondo fu sommerso finché chi aveva peccato annegò. Ci fu una specie di reset del sistema per ripartire nuovamente con un mondo rinnovato e puro. Smise di piovere, il cielo si aprì, le acque si ritirarono e l’arca si adagiò sul monte Ararat con un gran fragore. In questa fase ancora tutti gli animali erano inconsapevoli del male e non si sbranarono tra loro seppure chiusi in ambienti angusti e sofferenti per il mal di mare e gli scossoni.

Passò ancora del tempo finché un altro Giusto giungesse tra gli uomini, ancora una volta per compiere il volere di Dio che, essendo immateriale, spirito, aveva sempre bisogno di servirsi di uomini in carne e ossa. Le donne non erano prese in considerazione, forse per la scarsa qualità di costruzione derivando solamente da una costola del progenitore Adamo. In ogni caso Mosè si mise di buzzo buono e una mattina scalò le pendici fino a giungere sulla cima del monte Sinai dove ricevette da Dio, tra le fiamme di un roveto ardente, i 10 Comandamenti: due pesanti, calde e fumanti  tavole della Legge che al quinto punto dell’elenco riportavano l’obbligo morale di “non uccidere”. Un bell’impegno da rispettare se fino a quel momento ci si ammazzava senza complimenti e senza  che nessuno obiettasse più di tanto: Certamente si incorreva nel  piccolo fastidio degli schizzi di sangue difficili da togliere dagli abiti e nel  dover rincorrere l’altro che spesso lottava per non farsi uccidere. Ma adesso le cose erano cambiate se anche Dio lo aveva detto  e comandato, ora nessun uomo poteva più dire di non sapere nulla di quel sacro vincolo tra cielo e terra. Beh tanti rimasero perplessi, disorientati, accusarono il colpo  e ben presto misero in dubbio perfino la provenienza divina di quelle leggi visto che adesso per togliere la vita a qualcuno si rischiava una punizione eterna e dolorosa. Ragionando e riflettendo, pensa che ti ripensa qualcuno, forse più furbo degli altri, iniziò a credere che il delitto, infondo, non era poi cosa tanto terribile se Dio aveva scritto quel peccato a metà dei dieci precetti. “Ma sai che hai ragione?” gli dissero sollevati tutti gli atri che gli stavano vicino: lo abbracciarono, lo strinsero, lo portarono perfino in trionfo per avere riportato sulla terra il carico per  quella pratica così utile e umana. Con il passaparola finì che nell’arco di poco tempo si poté nuovamente uccidere seppure a certe condizioni. Tantissimi diedero un sospiro di sollievo e si misero ad affilare le lame un po’ arrugginite.

Si sa che uccidendo si corre qualche azzardo ma vuoi mettere l’adrenalina, l’astuzia di gabbare la giustizia, la soddisfazione di evadere dall’ergastolo o di rischiare fino alla condanna capitale e infine farla franca all’ultimo istante? Un’ebbrezza incomparabile con nessun’altra cosa.  Si poteva con meno scrupolo uccidere la moglie adultera colta in flagranza e ottenere una condanna minima, impiccare qualcuno ad un albero con un cappio anche senza processo, arderlo, ghigliottinarlo, farlo sbranare nell’arena dai leoni, fucilarlo, metterlo comodamente seduto su una sedia elettrica, sparargli con un cannone. Insomma il modo lo si trovava sempre purché un potere superiore delegasse l’uomo a essere il braccio destro della giustizia civile o religiosa, secondo i casi. Si comprese che se si voleva uccidere, quindi, si doveva avere dalla propria parte lo Stato o Dio: loro potevano derogare se le condizioni lo consentivano: Finalmente una soluzione decente era stata trovata all’annoso dilemma tutto umano.

Passarono gli anni e pure i secoli, e qualche tempo dopo ancora qualcuno, rimasto aimè anonimo, ebbe la bella trovata di diventare perfino amico del Signore, così amico da dargli del tu: “Dio è con me” pensò e disse.

L’Uomo in nome di Dio andò alle crociate per convertire con la forza i non credenti, bruciò gli eretici in piazza per dare il buon esempio, sterminò interi popoli perché inferiori, tagliò teste per incutesse timore e amore in Dio. Insomma da sempre è un gran da fare per farsi selfie con Dio, per millantare  e vantare, in un modo o nell’altro, amicizie celestiali e divine. Il primo crudo ragionamento iniziale sullo spargimento di sangue si è,  anno dopo anno, ammazzato dopo ammazzato,  molto sgrezzato nel tempo, si è fatto sottile, chirurgico, asettico e compiuto perfino a distanza.

Un modo molto efficace fu quello di lanciare addosso al nemico della roba esplosiva da un aereo. Si inventò perfino una bomba atomica: avete presente Iroshima e Nagasaki?

Il sangue è sangue baby.

Deus lo volt era il motto dei Crociati, Dio è con noi ripetevano i nazisti, Alla è il più grande si sentono urlare certi fanatici musulmani. Stringi stringi Dio è messo sempre in mezzo e non credo sia  contento di  essere il lasciapassare alle stragi di questi bravi padri di famiglia. Gli israeliani e Gaza  vi suggeriscono qualcosa?

 Quanto vale una vita? Dipende.

Tolleranza e democazia.

Tollerare è sopportare, tenere a bada ciò che è molesto come potrebbe esserlo un cattivo retrogusto di una medicina che lascia la bocca amara dopo averla presa, accettazione temporanea di persone o situazioni che in qualche modo siamo costretti a vedere, frequentare, tenere accanto. Il perché adottiamo questo atteggiamento solidale è forse per convenienza, convinzione sociale, fede o chissà per quale altro motivo ma la tolleranza è una parola dal significato forse più facile da dire che da mettere in pratica, soprattutto se non ci si ferma all’azione superficiale delle buone maniere che l’educazione, forse, ci ha insegnato.

Tolleranza significa anche, riferendoci alle parti meccaniche, quel gioco che nel movimento degli ingranaggi, negli incastri tra parti si può consentire senza danno, un concetto utile che riprendiamo dopo.

Trattandosi di rapporti umani la tolleranza, non può prescindere da riconoscere l’altro alla pari  e questo rapporto equo si può definire rispetto. Vi dice qualcosa l’egalitè e fraternitè francese o la legge è uguale per tutti presente in ogni aula di tribunale? L’uguaglianza di trattamento è proprio quel concetto che attiene alla dignità di ciascuno di noi esseri umani come individui degni di rispetto non per ciò che possiedono ma per ciò che sono..

Tolleranza, rispetto, uguaglianza per andare oltre alle parole richiedono, come tutti i progressi di ciascuno, uno sforzo di comprensione che deve necessariamente superare il primo impatto dei preconcetti. Un lavoro di comprensione che, nonostante si possa pensare il contrario, va a nostro vantaggio perché ciò che non si conosce quasi sempre si teme e si allontana. Diffidenza, sospetto, sfiducia sono spesso frutto di chi non conosce e si limita a tenere qualcuno a distanza basandosi solo sul si dice, su opinioni spesso infondate o su idee pilotate da chi ha interesse a sostenere idee discriminatorie ad esempio di interi gruppi sociali accomunati da una appartenenza generica.

Convivenza è un altro termine che unito agli atri termini incontrati finora, definisce il nostro vivere in società complesse formate da pluralità di culture diverse dalla nostra, una necessità prima di essere una tendenza, una moda o qualunque altra definizione si possa dare allo stare insieme. Comportamenti singoli che si riflettono in società mature presuppongono, a questo punto, una qualche forma di morale laica o religiosa che si dovrebbe tradurre in rapporti di equilibrio e reciprocità con gli altri.  Invece capita molto spesso che pensiero e azione siano totalmente o parzialmente discordi, con una separazione che si fa ancora più evidente quando si tratta di entrare dentro agli ingranaggi del sistema democratico che governa e regola le società che definiamo occidentali. Ci si può permettere di tollerare al proprio interno gli intolleranti? Ecco la domanda fatidica.

Ancora una volta si giunge dinanzi al paradosso per il quale si crede che un sistema democratico debba essere, proprio perché libero e aperto a tutti, capace di accogliere al proprio interno qualcosa che ha come suo presupposto quello di scardinare  lo stesso sistema che lo rende libero di agire ed esprimersi. L’intollerante colpisce nel punto debole del sistema.

In questo caso può aiutare a rifletter porsi qualche domanda. Può un organismo sano, un corpo vivente, permettere a batteri e virus di cagionarne la salute senza combatterli? Può essere adottato, sempre e comunque il detto evangelico di porgere ulteriori guance avendone solo due? Tolleranza è anche permettere che i mercanti del tempio continuino indisturbati i loro commerci senza poterli cacciare in malo modo? Ѐ plausibile non fuggire dinanzi ad un pericolo mortale per dare una inutile prova di coraggio?

A questo punto una risposta può trovarsi nel termine iniziale di tolleranza riferito alle macchine, ovvero  a quel gioco, a quei piccolissimi movimenti consentiti agli ingranaggi di una macchina affinché i meccanismi funzionino bene e senza danno.

In definitiva alla risposta iniziale si può in parte rispondere cosi: un organismo democratico può consentire agli intolleranti solo quei movimenti che non ne compromettano il funzionamento e la futura esistenza. Il come è fissato dalla Costituzione.

Il grigio.

Il grigio riflette dal cielo sulle mie azioni. Penso a cosa fare ma non ne ho la forza mentale per azzardare qualcosa che possa servire a cambiare una giornata piatta. Il grigio topo prevale sul raffinato fumo di Londra e il desiderio di cambiare questa specie di astenia non basta a vincere il peso plumbeo del cielo che sovrasta ogni cosa come un manto frutto d’incantesimo maligno. Immerso in questa soluzione anestetica sono appena capace di galleggiare al di la di ogni buon proposito, me ne rendo conto. Con tutti i buoni propositi che mi ritrovo immagino perfino di partire per la luna ma riesco appena a staccarmi da terra come un superman con la sua criptonite in tasca. I pensieri girano sonnolenti, a vuoto, in un loop continuo senza connessione; una caduta di un sasso nel pozzo che non emette nessun suono né tonfo, nulla di nulla, solo infinito apparente. La musica di sottofondo giunge lontana e cupa, le immagini appaiono piatte e prive di profondità. Ha piovuto e fa freddo per questa stagione che non riesce a fare il secondo passo se non come una illusione condita di tanta speranza di calore. Potrei provare a fingere il sole e il mare ma non ci credo nemmeno io.

Guardo in alto ancora per una volta, in cerca di aria ed ecco un piccolo spiraglio, uno squarcio di azzurro arriva in mio soccorso. Una lama di luce oltrepassa timida quella cortina fitta e ostile fino a terra. Gli occhi la seguono e si aprono al risveglio. Faccio un respiro profondo di sollievo, non è troppo tardi penso, niente è perduto. Mi sento stupido ora che la giornata svolta inaspettata come un sorriso che illumina il cuore. Una sopresa, l’inaspettato, è ciò che infondo fa girare il mondo. Ora lo vedo e posso ancora continuare a sperare a colori.

Le Sirene.

Sono in montagna, seduto all’aperto a guardare le montagne sulla valle. Il sole scalda un po’ e il vede dei prati fa scivolare l’occhio senza particolari Motivi da una casa ad un albero. Voglio stare in silenzio e fermarmi senza fretta. Vorrei rallentare il tempo ma riesco solo a non pensare al lavoro, alle bollette, alla spesa da fare, all’appuntamento con il dentista.

Respiro lentamente, mi distendo e gli occhi, dopo essere volati sulle pendici dei monti, ora  sono rivolti verso l’alto; iniziano a muoversi seguendo qualunque riferimento in quel mare d’azzurro.

I pensieri mutano e svincolati da scadenze e obblighi vagano in un colore che non so definire se mai nella mia mente ce ne fosse uno prevalente.

Mi vengono in mente i bambini, tutti i bambini che si trovano a nascere a morire. Millenni di nascite lontane nel tempo arrivano fino ad oggi in una catena infinita che si perde nel tempo: un bambino cosa ne sa di tutto quello che ha attorno? Nasce e basta. Tutto il resto è questione degli adulti.

Perché nascere, in quale posto della terra e in quale luogo, quali genitori avere, essere ricco o povero, orfano, di quale colore avere la pelle e gli occhi, quale destino gli accadrà nei suoi primi anni lui non lo sa.

Non lo sa nessuno anche se qualcuno vuol farci credere che non sia così. Non lo sanno gli astri e non lo sanno le divinità che ciascuno si è trovato a venerare, non lo sanno quelli che da subito vorrebbero addossargli colpe e debiti che non ha.

Non siamo nati come tutti, senza cavoli e cicogne, abbiamo avuto una madre e un padre e abbiamo forse fatto qualche scelta per questo? Tanti adolescenti hanno perfino rinfacciato ai genitori d’averli messi al mondo quando iniziano a crescere e la parola prevalente è no, e la contestazione delle regole sembra il naturale senso della rivoluzione che esplode nel loro corpo che cambia, nel mondo che tenta in tutti i modi ad imbrigliarne la forza esplosiva. Abbiamo già dimenticato come eravamo?

Ma ora mi chiedo, perché mai ad un certo puntoci si ritrova perfino a credere che avere un futuro migliore sia già una colpa da piccoli, che avere un colore di pelle sia un motivo per non accedere alle stesse opportunità, che credere in un dio piuttosto che in un altro debba significare obbligare l’altro ad accettarne uno diverso?

Provo a interrompere il flusso di pensieri che rallenta senza fermarsi del tutto, come lo scorrere dell’acqua che avverto in lontananza, appena udibile. Mi viene in mente l’Ulisse dei banchi di scuola che si fece legare dai suoi marinai all’albero maestro della nave per non impazzire al richiamo delle sirene. Ascoltò e sopravvisse andando per la sua strada.

Conosceva le sue debolezze e seppe trasformarle in  un punto di forza.  

 “Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti/ gli uomini incantano, chi arriva da loro. / A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce/ delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini/ gli sono vicini, felici che a casa è tornato,/ ma le Sirene lo incantano con limpido canto,/adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa
di uomini putridi, con la pelle che raggrinza “

Avviso ai naviganti del mondo: attenti alle Sirene.

Il bene e il male.

A volte alzo lo sguardo al cielo quasi a pensare che lassù possa esistere un mondo perfetto rispetto a quello che vivo, lo pensano in tanti e pure i greci con gli dei dell’Olimpo, per la verità rissosi, invidiosi, vendicati e meschini, ma poi scendo sulla terra e ci pianto i piedi. Qui ho le radici. Sento sotto la pianta dei miei piedi l’imperfezione del terreno, un leggero fastidio che passa dopo pochi minuti, qualche volta anche l’umidità che risale fino alle caviglie. Chiudo gli occhi e rimango immobile e penso al bene e al male, non so perché, ma la prima verità è che fanno parte di m come della nostra Umanità in modo indissolubile.

Le due categorie sembrano scontate, opposte e divise per loro natura da una linea invisibile ma solida più della muraglia cinese. Angeli e demoni ne impersonano, se solo avessero un corpo, le caratteristiche infernali e paradisiache e perfino un umano, Dante Alighieri, ne ha fatto una perfetta opera letteraria, proprio come Michelangelo Buonarroti più di ogni altro ne ha reso visibili premi e punizioni nella Cappella Sistina in Vaticano. Forze opposte, terribili e sublimi però solo in apparenza.

Mi ritorna in mente una storiella che Terence Hill raccontava in uno dei suoi film western: un uccellino su un prato viene coperto da una merda di mucca, poi passa un coyote che lo toglie da li, lo ripulisce per bene e se lo mangia. Morale: non tutti quelli che ti tolgono dalla merda, dice, ti vogliono poi così bene. Infatti è proprio questo il dilemma. Cosa è davvero male? Si certo ci sono le tavole della legge di Mosè dove sono stati incisi sulla pietra i dieci precetti morali da seguire tra cui non uccidere, e non uccidere è una legge universalmente riconosciuta da tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo. E davvero così, ne siamo così sicuri? Uccidere a volte diventa legittimo per difendere una vita, per difendersi da una aggressione e in guerra. Qualcuno pensa anche oggi alla pena di morte. Mi vengono in mente gli eroi greci Achille, Ettore, i Triani e la nobiltà del sacrificio fino all’estrema conseguenza. Dio lo vuole, disse qualcunoe qualcuno ha combattuto spesso in suo nome. Quindi, un bene superiore giustifica l’omicidio, un’eccezione alla regola è possibile. Ma tornando a noi, anche il male secondo le circostanze si camuffa da bene e viceversa. Lo sappiamo tutti quanto sia difficile comprendere gli altri e le loro intenzioni.

Dire no ad un figlio è male e assecondarlo è sempre un bene? Dipende. Dipende tutto dalle circostanze ma questo non vuol dire che tutto sia relativo. Significa che esiste un principio e che ogni fatto va valutato a sé perché non è sempre così facile distinguere il bianco dal nero e tutte le infinite sfumature tra questi apparenti opposti.

Torno indietro alla mia infanzia e a tutti i no che mi hanno insegnato a vivere e a tutti i si che mi hanno fatto gioire insegnandomi che senza quei no la mia felicità non ci sarebbe stata.

Poi ricordo che qualcuno una volta mi disse che avrebbe voluto vivere in un epoca del passato perché in quella attuale siamo manovrati, condizionati, prigionieri di non precisati  poteri forti e che in conclusione la nostra società attuale non era stata una conquista ma un passo falso rispetto ad un passato pulito, onesto, sincero e più felice. L’idea in apparenza sensata dopo un minuto mi è apparsa distorta e falsa.

Ogni civiltà si è combattuta da sempre con il proprio vicino senza alcuno scrupolo – vedi i Romani  ad esempio – e una volta vinto, ucciso, stuprato e dilaniato in ogni modo possibile era reso schiavo. Nessun diritto e possibili rivendicazioni se non si faceva parte della classe militare, nobile o ecclesiastica, nessuna cura o assistenza, niente proprietà di terreni e si passava la breve vita a generare braccia per lavorare dall’alba al tramonto solamente per la sussistenza. La vita della maggior parte degli uomini e delle donne era misera, breve e molto stentata.

L’inquinamento? Non è affare recentissimo ma basti pensare alla Londra del 1800 quando gli escrementi dei cavalli causavano gravi problemi respiratori che si sommavano alle ciminiere a carbone della nascente epoca della Rivoluzione industriale. In città si viveva meglio delle campagne seppur in ambienti malsani, senza acqua corrente, fogne e corrente elettrica, elevata mortalità per parto, epidemie di tifo e di malattie infettive che facevano il resto.

Ora torneremo sulla luna, dicono sia cosa certa come la verità che il bene e il male dipendono solo da noi e da nessun altro, perchè nessuna religione ci renderà angeli e nessun diavolo potrà mai spegnere l’amore che abbiamo dentro di noi, di qualunque colore si è.

Bianco e nero.

Voglio vestirmi di bianco per non essere in lutto, per essere dalla parte della luce che è fonte di vita. Anche la mia mente lo sarà, semplice nella complessità che brulica di idee, pensieri, timori che però non diverranno paura, mai terrore, la fine di ogni speranza.

Il mondo cambia attorno e non mi piace, s’incupisce, si richiude a causa di chi soffia sul fuoco per controllare la paura ma basterà non ascoltare, fare come Ulisse che si fece legare all’albero della sua nave per non morire vittima del canto delle sirene. Mi farò legare dai miei pensieri più belli, dalle mie speranze, dagli affetti più profondi, dalle mie passioni e amerò per non morire avvolto dal nero che vuole sovrastare ogni cosa. Danzerò alla musica che detterà il battito del cuore, non fuggirò ma affronterò  la tristezza, il vuoto, gli incubi immaginando la neve, coltre bianca di quando ero bambino, con quella stessa gioia semplice di vederla scendere dal cielo per ricoprire di silenzio tutto come un magico manto. Erano briciole di pane gettate per vedere arrivare festosi i passerri e un modo per alleviare la loro fame, ora saranno briciole per tornare indietro dal bosco fitto, filo per uscire dalla caverna labirinto del minotauro.

Crederò ancora che il giorno sorgerà ancora, che la notte trascorrerà anche stavolta, che il mondo nel quale vado aprendo e richiudendo la porticina del cuore è una speciale navicella fatta d’amore che viaggia al mio comando al di fuori del tempo e dello spazio. Già il tempo.

In quel mondo nessuno potrà entrare se io non vorrò, e ci porterò chi mi pare, e se il tempo non basterà me lo farò bastare. Rimarrò sotto la cenere a covare il fuoco con il minimo di ossigeno disponibile, e quando tutto passerà tornerò ad ardere, a vivere. Quando tutto sarà finito io ci sarò come dall’inizio del mondo, sarò ancora vento e fuoco, sarò pioggia e neve, sarò battito d’ali e passi sull’erba, sarò silenzio, e sarò vestito ancora di bianco.

Un mondo un po’ più vuoto.

Ricordo, ora aleggia nuovamente quella sensazione che non so dire e che non riesco a dimenticare, un dolore che non trova ragione senza le parole che avrei voluto avessero illuminato l’oscurità che ancora non conoscevo.

Tu con la quale ho condiviso momenti importanti da sempre, scambiato il cuore, tu che mi ha dato la vita,  mi guardi sorridendo ma non sei più tu, sei un guscio, colpita da un maleficio sei un apparenza sbiadita di ciò che eri e ti guardo incredulo,e ancora ti guarderò. Un malessere profondo, spietato, crudele ha cancellato il tuo passato, ogni legame di quella rete di memoria che t’ha gettata nel vuoto senza nessuna protezione. Neppure una braccio teso, un sorriso potrebbe riportarti su dall’abisso.

La tua voce emerge dal fondo di un pozzo ogni giorno sempre più profondo, un essere cieco e infaticabile scava dentro di te immensi vuoti. Vorrei sconfiggerlo come Davide con Golia ma non è un sogno, una leggenda ma tutto questo è reale.

Gli occhi sempre più assenti e lontani, la tua voce senza più vibrazioni, i gesti freddi e ripetuti, la gioia della quotidiana fatica di vivere è ormai  dissolta come il cielo al quale chiedere comprensione, pietà, aiuto. Vorrei sentirti ancora come un brivido lungo la schiena, come poesia, come sorriso ma è l’ombra che prevale, sei statua sommersa in mare, isola persa, nave in mare aperto.

Il silenzio che ritrovo nei ricordi tra noi, dove ero anche io con te, non è più pacifico, accogliente, materno ma è aguzzo, velenoso, ostile, fa male. Ti sei ritrovata al di la di in muro insormontabile e chissà se ne hai coscienza, se comprendi la solitudine del fuoco nel quale, con la tua, arde anche la mia anima.

Il sangue che faceva battere cuori, animare i sogni, spingere abbracci d’amore si è tramutato in acqua torbida con quei gesti vuoti fatti senza più alcuna passione, senza volontà tanto che mi sembrano il vano e assurdo protocollo di una pratica da sbrigare senza un perché.  

Dov’è finito tutto quell’amore, mi chiedo invano, dove siete andati voi che amavo? So già che non otterrò risposta.

Vorrei chiamarti con tutta la voce che ho in corpo, urlare, per far tornare indietro la tua anima e anche la mia, vorrei dirti arrivederci a questa sera, sperando di rivederti com’eri, ancora, di parlarti senza far caso alle parole e al dolore che si è piantato nel mio cuore da un po’, dirti senza rinunce quello che non ti ho mai detto, e pensare di abbracciarti ancora e fermarmi così per l’eternità. Basterebbe un sorriso.

Arrivederci, vorrei dirti ancora.

Lepanto 1571, il paradosso di una vittoria.

Siamo davvero convinti che gli avvenimenti del passato non siano ancora presenti nelle dinamiche odierne? Parliamo di convinzioni e sviluppi anche politici che partono da lontano ma che hanno lasciato tracce profonde. Un esempio tra tutti è la guerra tra Israele e i Palestinesi che affonda motivazioni territoriali e religiose lontane millenni, ma adesso parliamo di fatti accaduti nella metà del XIV secolo, di quando i turchi guardano l’isola che hanno a settanta chilometri dalle loro coste, Cipro. Possono quasi toccarla, sta lì come fosse loro ma è invece dei veneziani distanti duemila chilometri, che per di più usano l’isola come avamposto per le incursioni dei pirati cristiani alle navi ottomane. Certo è una questione che va affrontata e il sultano fa la proposta ai veneziani di cedergliela con le buone, senza spargimento di sangue, proposta che ovviamente viene rifiutata, seppure dopo una qualche riflessione che fa prevalere alla pace  l’orgoglio e l’interesse economico: è guerra.

Di questa decisione il più contento tra tutti dell’imminente conflitto è, come si dice, il terzo incomodo ovvero papa Pio V che aveva da sempre avuto come obiettivo quello di sconfiggere definitivamente l’impero ottomano. Per la verità gli attori in campo non furono solo tre ma adesso il papa si è assunto il difficile compito di costituire la più ingente flotta navale del Mediterraneo, e poteva riuscirci soltanto mettendo d’accordo spagnoli e veneziani tra i quali però, per usare un eufemismo, non correva buon sangue. La flotta si sarebbe chiamata la Lega Santa, una sorta esperimento alchemico simile a far coesistere il diavolo e l’acqua santa ma nei fatti, al di là del nome, l’impresa inizia già complicata e non si vedono progressi nelle trattative soprattutto per i costi ingentissimi da dover affrontare ma anche per chi dovesse comandare una tale forza navale.

La svolta si ebbe quando i turchi occupano Cipro con una flotta di duecento navi, attaccano Creta e puntano verso le isole Ionie: l’Occidente comincia a tremare svegliandosi dai tentennamenti e dai continui rinvii. La flotta veneziana a presidio dell’ingresso nell’Adriatico fugge e ripara nel porto di Messina che a quei tempi era un porto spagnolo. Con i turchi nel’Adriatico i veneziani temono concretamente una conquista disastrosa e l’accordo con gli spagnoli viene finalmente siglato: una flotta pari a quella turca sarà composta da duecento navi e sarà comandata dal ventenne Don Giovanni D’Austria, detto tra di noi, il figlio illegittimo di Carlo V , voluto fortemente dagli spagnoli.

Comunque, chiacchiere a parte, bisogna fare i conti ancora con la realtà:  la flotta veneziana è piuttosto malandata e deve essere risistemata, gli equipaggi sono a ranghi ridotti perché falciati dal tifo dell’anno precedente e le navi spagnole sono tutte da approntare quasi totalmente. Servono risorse in tempi brevi, occorre reperire marinai e rematori, riparare le navi, fare scorta di ingenti quantità di cibo e di remi che si spezzano di frequente; tutto da fare in fretta e con le risorse che mancano, scarseggia perfino il legno e chi produce i remi, la polvere da sparo per gli archibugi pretende più del previsto. Ritarda pure la fanteria tedesca che doveva imbarcarsi sulle navi.

Seppure a rilento, tutto sembra in qualche modo procedere, anche la flotta cristiana una volta giunta a Napoli riceve da parte del papa uno stendardo raffigurante il crocifisso mentre le forze navali turche continuano a distruggere i possedimenti veneziani, a saccheggiare e fare prigionieri e schiavi quasi indisturbati.

Ѐ già settembre e si sa che il Mediterraneo in autunno e soprattutto in inverno è un mare impossibile per le galere cristiane dagli scafi bassi che naufragano facilmente con le tempeste. Stessa considerazione la fanno i turchi che portano tutta la flotta nel porto di Lepanto, convinti di passarci tutto l’inverno: vengono licenziati i soldati e i marinai che erano pagati solo se navigavano, mandati a casa pure i giannizzeri i temuti cavalieri ottomani.

La flotta cristiana però decide di salpare ugualmente e si ferma nel golfo di Patrasso aspettando che succeda qualcosa, magari che i turchi escano dal porto. Nessuno ci spera davvero, nessuno sa cosa accadrà nei prossimi giorni ma per i turchi, questa mossa, appare come una sfida irrinunciabile se ad un certo punto decidono di uscire dal porto e affrontare gli infedeli per non passare alla storia come codardi.

In ogni caso, la mattina del 7 ottobre 1571 le prime vele turche escono dal porto in direzione di Lepanto e a seguire tutte e duecento le  imbarcazioni vanno a sommarsi alle duecento galere cristiane in attesa. Due flotte numericamente pari si fronteggiano e apprestano allo scontro ma gli ottomani sono in mare già dalla primavera, avevano affrontato svariate battaglie e gli equipaggi sono stati intaccati da peste e dissenteria oltre che essere ridotti ulteriormente perché gran parte di essi erano stati congedati quando erano tornati in porto. La flotta navale cristiana è invece più fresca, in forze, con le navi in ottimo stato e cariche di tutti gli uomini e di tutte le armi necessarie, inclusi gli archibugi e i cannoni.

Impossibile prevedere a quel tempo chi avrebbe prevalso sull’altro, nemmeno gli ammiragli avrebbero potuto saperlo, anche perché in breve tempo il conflitto si sarebbe trasformato in decine di singole battaglie spezzettate e affrontate da circa centomila uomini tra marinai, rematori e soldati. Un caos ben poco governabile e immaginabile nel risultato finale.

Le navi prima di speronarsi a vicenda sparano con i cannoni di prua e così fanno i cristiani a distanza ravvicinata però con un maggior numero di bocche da fuoco a disposizione. Le galere si incastrano le une con le altre con un fracasso assordante, la visibilità è ridotta per il fumo e il fuoco appiccato, le urla dei soldati rendono impossibile udire altro, così inizia in pratica una battaglia di terra dove entra in gioco la fanteria con quella cristiana più numerosa e tutta armata di archibugi, mentre i giannizzeri turchi, forti sulla terra grazie ai cavalli, adesso possono contare quasi solamente su spade, archi e frecce inefficaci sulle armature nemiche. Con una tale superiorità tecnologica i cristiani in sole due ore di battaglia hanno la meglio: salgono sulle navi nemiche preceduti da scariche di archibugi, poi rapidamente sgozzano chiunque si trovano dinanzi e lo buttano in mare ferito o morto che sia prendendo il controllo della nave.

La sera del 7 ottobre 1571 la flotta del sultano è distrutta: tre quarti delle galere sono in mano cristiana e le altre sono fuggite. La sconfitta non ha effetti di massa anche perché la notizia viene poco diffusa, la stampa non esiste e si accetta il fatto quasi con fatalismo.

Invece in Occidente la grande vittoria viene annunciata come una grazia divina, un segno del cielo con i predicatori che ne narrano i fatti con gran trasporto; nei mesi successivi viene pubblicizzato l’evento in tutti i modi: libri, poemi, fogli, articoli, gazzette raccontano la battaglia epocale, la vittoria più eclatante che i cristiani hanno mai avuto sugli islamici, un trionfo che viene descritto perfino con i nomi dei comandanti di ciascuna imbarcazione. Questa enorme eco convince l’Occidente di aver sconfitto definitivamente i turchi che però, con uno sforzo invidiabile e inaspettato, reagiscono ricostruendo per l’estate successiva una nuova flotta mentre i cristiani vittoriosi, finita la battaglia, tornano nei porti con le galere cariche di feriti che in parte moriranno nei mesi successivi negli ospedali di Messina, Napoli e Genova, smobilitato la cavalleria che d’inverno non veniva pagata a vuoto.

In concreto Lepanto non è servita ai cristiani se non per narrarne le gesta eroiche: Cipro è ancora in mano ottomana, le galere turche minacceranno per ancora molti anni il Mediterraneo ma la convinzione prevalente e consolidata tra la gente è che la Provvidenza è davvero dalla loro parte: questo basterà ad innescare l’idea di uno scontro di civiltà che perdura ancora oggi nell’immaginario di molti.

Oh cielo!

Per l’uomo il cielo e le stelle sono stati fonte di curiosità fin dall’inizio della sua comparsa sulla Terra. Chissà cosa avrà pensato il primo essere umano senziente la prima volta che ha alzato lo sguardo verso il cielo profondo e misterioso. Un insieme di sensazioni si saranno mischiate insieme, paura e  voglia si sapere, e sta di fatto che presto ci si accorse che quella palla luminosa si spostava nel cielo, e su quei movimenti l’uomo degli albori avrebbe regolato tutto il suo metabolismo adattandolo al giorno e alla notte: quella alternanza di luce e buio era il tempo di durata del giorno. Poi ci si accorse che i movimenti più lunghi del sole erano regolari e si provò a calcolarli stabilendo che l’anno era composto da trecentosessantacinque giorni.  Lo fecero per primi gli antichi egizi con tre stagioni di quattro mesi ciascuna fatte da 360 giorni più cinque o sei giorni aggiunti alla fine dell’anno, tanto per fare tornare i conti. Noi ancora oggi, per lo stesso motivo, aggiungiamo un giorno ogni quattro anni.

Si era compreso che guardare il cielo poteva essere utile anche per le cose della Terra: così per regolare il tempo, i periodi di semina e magari prevedere qualche evento. Così quello spazio fatto di stelle iniziò a riempirsi di divinità, miti e chissà cos’altro, perfino di profezie catastrofiche.

Si comprese che quei puntini luminosi potevano essere utilissimi anche per tracciare rotte e poter avere riferimenti anche di notte per viaggiare non conoscendo ancora la bussola che sfruttava il magnetismo terrestre. Si iniziarono a cercare dinamiche e relazioni tra le stelle e si vide che una costellazione, quella dell’orsa maggiore, molto visibile  e facilmente identificabile nel cielo poteva essere un riferimento per i viaggiatori ma purtroppo questa si spostava durante la notte. Partendo da quella si trovò, un po’ più in alto,  una stella che sembrò proprio fare al caso: stava ferma nel cielo. Era stata trovata la stella polare che in realtà era non era fissa e immobile ma appariva immobile perché coincideva perfettamente con l’asse di rotazione terrestre. E le osservazioni del cielo proseguirono inventando costellazioni e attribuendole agli dei che da lassù erano capaci di determinare gli eventi di tutti gli umani. Guardando in alto si cercavano le risposte di ciò che accadeva in basso, magari cercando di favorire le bizzarrie e i voleri mutevoli delle divinità che lì vivevano. Una delle storie più famose è quella di Callisto, un’amante di Zeus trasformata in orsa da Era. Zeus la mise poi nel cielo come costellazione per proteggerla dalla gelosia di Era.

Secondo la mitologia Greca Orione era un gigantesco cacciatore che avanzava dal mare con la spada fiammeggiante, ed era così alto da toccare le stelle. Dopo la sua morte, ucciso da Artemide, trovò riposo in cielo insieme al suo cane Sirio. Orione è la costellazione di riferimento più antica tra quelle conosciute dai naviganti per tracciare le rotte. Giove rinnovato nel nome greco di Zeus è un pianeta rosso, Marte assume anche un posto in cielo e inTerra è il dio della guerra. Cieo e terra trovano connessioni e si pongono agli opposti, l’alto e il basso, e in alto vengono collocate le anime buone, il Paradiso , i Santi; nelle profondità terrestri, nelle parti oscure e infuocate dal magma Dante Alighieri e la tradizione Cristiana pone le anime dannate, dove il male sarà scontato in eterno.

Il cielo é da sempre una continua scoperta, fin dall’antichità un inesauribile scrigno di riflessioni per lo più filosofiche e teoriche, oltre che teologiche. Già gli antichi credevano a quel sistema geocentrico e gli studi teorici del filosofo greco Aristotele il Sole, la Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e le stelle erano tutte in orbita attorno alla Terra. In tempi successivi il matematico Tolomeo teorizzò che tutte le sfere celesti vi ruotassero attorno con una serie di orbite perfettamente circolari. A queste teorie aderirono perfettamente quelle della Creazione del mondo cristiano con la terra al centro e tutto lo spazio visibile attorno. L’uomo, si confermò, era al centro di tutto l’Universo creato da Dio.

Nel 1543 un matematico polacco, Nicolò Copernico, compie una vera “rivoluzione”. Pubblica “De revolutionibus orbium coelestium” (Sulle rivoluzioni delle sfere celesti) affermando che al centro di tutto c’è il sole e non la Terra. Sostiene che sotto uno spazio finito di stelle immobili come un lenzuolo ci fossero i pianeti che ruotano attorno al sole con orbite circolari.  Ma ancora i conti non tornavano seppure fu certo che da quel momento in poi bisognava cercare una nuova spiegazione al moto dei pianeti, possibilmente slegata dalla teoria filosofico teologica che fin lì era stata la regola.  Ecco, proprio a questo proposito, la Chiesa non apprezzò per nulla questa eresia, tant’è che il corpo di Cartesio fu seppellito nella cattedrale di Fronbork in una tomba senza nome e ritrovato solo nel 2010.

L’opera di Copernico non rimase comunque senza conseguenze, infatti Giordano Bruno, un domenicano, dopo averla letta afferma che un dio infinito non può che creare un mondo altrettanto  vasto e sconfinato, senza centro e senza centralità alcuna. Questa e altre sue dichiarazioni lo porteranno alla condanna da parte dell’Inquisizione: sarà arso sul rogo e al rogo in piazza Campo dei Fiori, a Roma, il 17 febbraio 1600.

Sulla infondatezza delle teorie cosmologiche basate su argomentazioni teoriche e testi religiosi solo pochi potevano avere dei dubbi ma nessuno aveva mai pensato che si potessero provare con dati di fatto. L’occasione arrivò con Galileo Galilei, un matematico pisano che insegnava a Padova. I pochi studenti del corso aumentarono a in poche settimane per ascoltare il nuovo professore che si fece costruire perfino un banchetto sopraelevato. Galileo Galilei sapeva coinvolgere, spiegare e parlare in modo comprensibile del firmamento e di fisica. Lui osservava il cielo con uno strumento nuovo di sua invenzione: il cannocchiale. In realtà gi era stato regalato un tubo con delle lenti, un attrezzo molto rudimentale che luì modificò con delle parti mobili e con nuove lenti fatte realizzare da maestri vetrai veneti. Lo donò perfino al Doge che quando dal campanile di San Marco lo puntò verso una nave in porto ne vide ogni dettaglio.

Galileo puntando il cannocchiale verso il cielo trasformò uno strumento militare in uno scientifico. Osservò per svariate notti la luna, le sue orbite e poi da lì anche le stelle, e ne prese accuratamente nota, disegnò accuratamente le fasi lunari, la superficie e i crateri, la parte in ombra. Nel suo “Sidereus Nuncius, sulla luna scrive: ” … da osservazioni più volte ripetute, siamo giunti alla convinzione che la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme e esattamente sferica …. ma al contrario diseguale, scabra, ricca di cavità e sporgenze …” Da quel momento in poi nacque l’astronomia moderna, basata su osservazione e misurazione degli eventi, e per sempre venne separata dall’astrologia, almeno in ambito scientifico. Ciò che non era visibile e misurabile non era più preso in considerazione ed era già più che evidente che le stelle non avessero relazioni tra loro, essendo enormemente distanti da noi e tra esse, e che la disposizione in costellazioni fosse solo una umana costruzione immaginaria e dovuta al punto di vista terrestre. Ciò nonostante la lettura degli astri rimane ancora oggi una credenza alla quale molti non rinunciano se perfino in tempi relativamente recenti, la vittoria delle truppe sabaude sui francesi fu propiziata dal cielo: durante la battaglia il sole, simbolo del Re diFrancia, sparì dal cielo mentre si rendeva ben visibile la costellazione del Toro, emblema della città di Torino.

Anche per Galileo la Chiesa cattolica non gradì il cambiamento di ordini celesti, non tanto per le conseguenze scientifiche ma per quelle provocate agli equilibri terreni. Non era facile per chiunque stravolgere una tradizione di quattromila anni nella quale si credeva alla unicità umana e alla sua centralità nell’Universo.

Galileo stavolta avrebbe potuto dimostrare facilmente ciò che diceva e lo aveva fatto in modo molto più comprensibile rispetto ai suoi predecessori, soprattutto di Copernico che in pochissimi compresero davvero attraverso i suoi scritti, inclusa la Chiesa. Sta di fatto che l’inquisizione lo processa e  lo costringe alla nota abiura: ” Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633“. Nel suo “Dialogo sopra  i due massimi sistemi del mondo” Galileo rende in forma discorsiva e chiara il dibattito tra Simplicio e Sagredo: Il primo fautore della teoria tolemaico – aristotelica e il secondo sostenitore di quella del nuovo sistema fisico e cosmico prospettato sulla base dell’ ipotesi copernicana e della nuova fisica quantistica. Ovviamente nella disputa vince Sagredo. Eppur si muove! si tramanda abbia proniunciato Galileo dopo la sua ritrattazione.

Ma arriviamo al 1968. Un razzo del programma americano Apollo – ecco ancora gli dei-  porta in orbita lunare tre astronauti che fanno ritorno sulla terra. L’Apollo 8 è la prima missione che porta degli esseri umani in un’orbita diversa da quella terrestre. La missione era ad alto rischio, qualunque errore di calcolo, anche di pochi gradi, poteva significare andare fuori rotta e perdersi nello spazio ma il controllo sui dati elaborati dal computer di bordo vennero fatti manualmente dall’equipaggio con un astrolabio. Le stelle tornavano ad essere ancora più che utili, anzi determinanti.

Il passato era ancora una volta futuro.

Il libro ignorante.

Chi ha detto che i libri sanno tutto? Avete mai visto un libro andare a scuola, scrivere e far di conto? Potreste mai dire che un libro sia ignorante se ha tatuate sulla pelle di carta tutte quelle parole? Non lo avreste mai detto vero!?

Un giorno un libro dei tanti presenti nella piccola biblioteca del paese, stufo di essere letto, si ripropose di capire cosa mai ci fosse scritto sulle sue pagine. Aveva osservato gli occhi curiosi del lettore scorrere sulle righe fatte di parole nere sulle pagine bianche. A volte le dita passando da destra a sinistra gli facevano il solletico ma la disciplina propria dei libri ben stampati gli imponeva un composto silenzio quando avrebbe voluto far vibrare tutti i fogli rilegati e cuciti a partire dalla copertina rigida rivestita in pelle e decorata da caratteri in oro.  Lui non poteva permettersi pazzie, non era certo un fumetto. Cosa avrebbero detto di lui?

Il suo desiderio di imparare a leggere era scaturito in parte dalla curiosità che tutti gli scrittori hanno e che, , in qualche modo, così gli piaceva credere,  gli era stata trasmessa dalle parole impresse sulla carta al momento della stampa. Ma poi non gli era proprio piaciuto l’abbandono sullo scaffale al quale il suo proprietario lo aveva relegato. Prima coccolato, sfogliato con attenzione, mai sottolineato e piegato nei lembi in alto e poi dimenticato per anni? Proprio non si capacitava di un simile voltafaccia.

Era amareggiato per le sue pagine ingiallite, per la polvere che lo ricopriva sul margine superiore, per i pesciolini d’argento che gli causavano un fastidioso prurito. Eppure si sentiva già parte della famiglia,, portato a letto, infilato in valigia e perfino condotto in vacanza. Era rimasto per giorni e notti sul comodino a vegliare  i sogni del suo padrone. Stava lì a vegliarlo da quando spegneva la luce e si addormentava. In quel tempo lui era sicuro che il suono delle sue parole risuonasse ancora , che le immagini dei mondi di carta prendessero vita nei sogni. E gli sembrava quasi di vederli quei mondi.

La favola di Pinocchio e del suo abbecedario, lo commuoveva fin quasi alle lacrime, se solo le avesse avute.

E ora pian piano iniziò ad ascoltare chi leggeva a voce alta, a distinguere i segni, le lettere, le parole, le frasi e le regole segrete delle parole finché imparò a leggersi. Immaginò di essere quel burattino divenuto bambino, si vide correre e respirare in quel sonno magico che arrivava quando, spenta la luce, le parole risuonano ancora in mente e gli universi del cuore sono galassie luminose.

L’albero.

C’era una volta un albero del bosco che un giorno si mosse. Aveva un solo desiderio: vedere il mare. Gli uccelli gli avevano raccontato storie di pirati, velieri velocissimi, descritto la bellezza di quell’immensità d’acqua nella quale vivenano creature enormi e piccolissime. Così quel giorno memorabile riuscì a tirar fuori dal terreno una radice, poi un’altra e un’altra ancora, e iniziò a camminare verso il mare lungo le pendici del monte. Quando lo vide si fermò a riprendere le forze, si fermò perche vide che le radici erano fragili e si spezzavano ad ogni passo: non erano fatte per camminare.

Alcuni alberi lo accusarono di stupidità per ciò che aveva fatto, altri lo seguirono e lo superarono fino quasi alle rive, altri lo rimproverarono per la sua pavidità, qualcuno lo prese per pazzo.

Chi avrebbe potuto essere più fortunato di quegli altri alberi che stavano in prima fila a godersi sole, mare, aria buona., panorama fantastico e tramonti da sogno.

L’albero tacque e aspettò, lui aveva tanto tempo a disposizione. Attese i giorni, attese l’inverno e la tempesta, i fulmini e le mareggiate che il bosco in prima fila subì senza difese, attese che tutto accadesse. Pianse e se ne rattristò nel vedere i suoi amici morire ma continuò a guardare il mare, sorgere ancora il sole come aveva sognato da sempre. Continuò a sognare e vide che era felice, e questo gli bastava.

Fuori una notte intera fino all’alba.

C’era una volta un regno dominato dagli uomini.

Non era sempre stato così ma pian piano, le libertà delle donne divenne un problema, il più grande ostacolo. Chissà dove si sarebbe arrivati di questo passo con le donne che fanno quello che gli pare, e così si doveva pur rimediare.

Alle donne fu vietato di studiare, di cantare e ascoltare musica, di leggere a voce alta in pubblico, di guidare, di mostrare i capelli e ogni parte del corpo, di uscire da sole senza un uomo, di frequentare gli stessi spazi di preghiera degli uomini, di non ubbidire al padre e al marito, di rimanere nubili, di possedere beni oltre alla propria dote, di avere una attività a proprio nome, di votare. Si rimediò.

Le cose, nonostante le prime resistenze iniziali, sembrarono andare molto meglio per gli uomini finché, un giorno, un maschio si ammalò di una malattia sconosciuta. Sua moglie, le sue figlie e sua madre non poterono aiutarlo. Poi si contagiò un altro maschio e sua sorella non comprese cosa il medico le disse, nessuna lo accudì mentre i maschi erano in battaglia e nei campi.

Così uno dopo l’altro tutti gli uomini della Regione si ammalarono e morirono.

Nessuno li seppellì, nessuno li pianse, nessuno li ricordò. Sparirono come polvere.

Arrivò la primavera e gli uomini che erano stati mandati in esilio per le loro idee tornarono e furono accolti dalle donne e rimasero tra loro e con loro.

Nacquero maschi e femmine liberi, senza quella memoria terribile, e vissero in pace danzando al ritmo della vita. Per sempre.